Editoriali

L’alternativa non si costruisce inseguendo la destra

L’intervista di Romano Prodi sul Corriere della Sera del 14 novembre è da leggere con molta attenzione perché da esattamente il senso del circolo vizioso in cui si trova oggi la politica italiana. Tutta la discussione ruota intorno all’ordine esistente, l’ordine neoliberista, come unica realtà possibile. Dice Prodi di essere preoccupato che dal “centrosinistra arrivi una lettura troppo ristretta della società, non sufficiente per un’alternativa concreta di governo”. Per Prodi il modello da seguire non è quello del nuovo sindaco di New York Zohran Mamdani. – troppo radicale – ma quello “decisamente più moderato” delle due governatrici democratiche, che hanno vinto in Virginia e New Jersey. Dunque rivolgendosi al centrosinistra italiano dice “no al radicalismo” in funzione di una riclassificazione della sua agenda politica in senso ulteriormente centrista e moderato.  “No anche alla patrimoniale: verrebbe interpretata come l’inizio di un’oppressione fiscale”. Guai a spaventare i ricchi, potrebbero reagire! Alla domanda del giornalista se è giusto continuare ad armare Kiev, Prodi risponde che “non c’è alternativa”. E via di questo passo.
Prodi non è il solo a pensarla in questo modo. In questo momento nel Pd c’è una forte propensione ad attuare una svolta in senso moderato, più di quanto non sia già ora, come unica possibilità per competere con la destra al governo. E’ il fatalismo neoliberista che nelle sue diverse varianti, anche in quella del liberismo cosiddetto progressista, spinge all’inevitabilità e alla ripetitività, nell’illusione di ottenere risultati più favorevoli. In tutto questo c’è la dissoluzione di qualsiasi progetto di trasformazione politica e la distruzione di qualsiasi orizzonte alternativo.
In Prodi e nei suoi sodali di centrosinistra non c’è più nessuna idea della politica come quella che vive fuori dai partiti di sistema, nei movimenti di lotta e di protesta, nessuna percezione dello scenario di crisi che coinvolge non tanto il governo ma il progetto capitalistico. Questo progetto, per le sue contraddizioni intrinseche, insostenibili sul piano sociale, ambientale, delle disuguaglianze, del riarmo, della guerra presenta una miriade di crepe, fa sempre più fatica a stare in piedi. Il racconto di Prodi, non solo di Prodi ma di tanta parte del Pd e del centrosinistra, sulla necessità di “leader credibili e riformismo concreto”, è un racconto che porta a un vicolo cieco, e a inseguire la destra sul suo stesso terreno di erosione della democrazia e di iniquità sociale.
Se si vuole produrre un cambiamento reale la strada da intraprendere è un’altra.  Non serve più moderazione ma l’esatto opposto, più radicalità. Occorre uscire dalla “gabbia d’acciaio”, come la chiamava Max Weber, dei rapporti capitalistici e del bipolarismo politico militare in cui sono venute meno le ragioni di una contrapposizione sulle questioni sostanziali. Occorre pensare e agire in una diversa prospettiva, che è quella di una alternativa di pace, di giustizia, di eguaglianza sociale da costruire con le forze che sono contro il liberismo e la guerra, in cui i referenti non siano le banche, il grande capitale, la grande finanza, l’economia di guerra ma le lavoratrici e i lavoratori, le/i pensionate/i, il mondo giovanile con le sue istanze di un futuro migliore.           

Sciopero globale per il clima. Una lotta per la casa comune, per la pace

La parola sciopero sta tornando ad essere un significante in grado di evocare importanti concetti. L’indignazione, la lotta collettiva, la possibile rottura di vincoli creduti assoluti.
In Italia e nel mondo questa riacquisizione la si deve anche a ciò che le nuove generazioni hanno ritenuto importante e decisivo per il loro futuro. La casa comune, il clima, l’ambiente come momento intorno a cui richiamare l’azione collettiva.
E’ dunque a partire da questa nuova sensibilità, ormai maturata nel tempo, in grado di contaminare generazioni e luoghi, e sullo sfondo della COP 30 in Brasile che si arriva allo sciopero del 14 novembre.
L’occasione è densa di significato per due ordini di motivi.
Da una parte si vuole mandare un messaggio chiaro ai governi del mondo. La crisi climatica va affrontata di petto. I governi lo devono sapere e devono sapere anche che le intelligenze, le spinte e le lotte che si sono venute organizzando dal basso hanno tutte le carte in regola per chiedere questo cambiamento. Di più: tra una COP e l’altra sono state più queste esperienze a dimostrare quanto il cambiamento sia necessario e possibile che i governi medesimi. Accanto a ciò il momento di protesta non può che guardare favorevolmente anche alla riorganizzazione globale in atto. Il sud del mondo, ciò che non è occidente, prova a indicare un’esigenza primaria nella cura del pianeta. Lo fa certo attraverso traiettorie non sempre lineari, magari problematiche, ma ci prova. In ballo ci sono interessi enormi, mentalità coloniali mai sconfitte, l’energia fossile da sostenere contro la scienza e contro la vita. Una sfida che però è lanciata.
Da un’altra parte lo sciopero non è dimentico del contesto internazionale in cui si sviluppa, con la tragica situazione in Palestina tutt’altro che risolta e quella nel cuore d’Europa con il precipizio della terza guerra mondiale a un passo.
La guerra è barbarie, orrore, morte. La guerra è nemica dell’ambiente. La distruzione dei luoghi, la costruzione, l’uso di armi che implicano emissioni e modificazioni di lunghissimo periodo degli ambienti sono un tragico portato dei conflitti e della logica militarista.
L’Europa di Von der Leyen, con il sostegno di forze cosiddette progressiste, liberali, conservatrici, ha compiuto con il Piano di Riarmo una scelta contro l’ambiente, che dirotta i fondi destinati alla riconversione ecologica. Si tratta di una decisione molto grave che accomuna diverse opzioni politiche, comprese quelle cosiddette progressiste. L’Europa dovrebbe difendersi, difendere la propria identità contro i barbari (russi) alle porte. Persino un’alleanza tutt’altro che difensiva come la NATO andrebbe rilanciata perché, come dice Gianni Riotta, una delle tante voci del militarismo democratico, “nel XX secolo una coalizione di democrazie esorcizzò l’Apocalisse, la sfida del XXI sarà bissarne il successo, in un mondo spaurito, diviso”.
Chi sciopera per il clima oggi sa bene che l’isteria guerrafondaia da qualsiasi parte arrivi non è la soluzione né sul piano della sicurezza comune, per cui serve semmai la trattativa, né sul piano di un serio approccio al cambiamento climatico. Chi sciopera oggi ha la consapevolezza che lottare per la casa comune significa anche seguire le pressanti richieste che vengono dal medio oriente: fermare l’import-export energetico con Israele, disinvestire dai suoi progetti di estrazione. Chi sciopera oggi, dunque, ci sa mostrare la connessione profonda tra i nodi che riguardano l’ambiente con altri nodi a partire dalla tendenza alla guerra di un capitalismo che torna ad essere politico, autoritario, oligarchico soprattutto nei luoghi della sua crisi più profonda.

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