Da Dublino a New York, due vittorie che riscrivono il linguaggio della politica. Una sinistra intersezionale, credibile e radicata mostra che si può ancora vincere parlando la lingua del 99%.
Nel giro di due settimane, due eventi elettorali — distanti migliaia di chilometri ma affini nello spirito e nei risultati — hanno scosso l’immaginario della sinistra globale. A Dublino, Catherine Connolly, avvocata, femminista e socialista repubblicana di Galway, ha vinto le elezioni presidenziali irlandesi con un travolgente 63% dei voti, sostenuta da una coalizione senza precedenti: dai Social Democrats e dal Labour Party fino ai repubblicani di Sinn Féin e ai socialisti radicali di People Before Profit. A New York, Zohran Mamdani, economista, attivista e militante dei Democratic Socialists of America, ha conquistato la carica di sindaco con il 50% dei voti, sconfiggendo nientemeno che l’ex governatore dem Andrew Cuomo.
Due risultati apparentemente locali che raccontano, in realtà, un mutamento più profondo: la riscoperta di una politica capace di unire la giustizia sociale e quella culturale, la concretezza quotidiana e la radicalità dei principi. Due campagne nate ai margini del sistema, ma capaci di rovesciarlo con strumenti nuovi: empatia, chiarezza, coraggio. E una convinzione semplice ma rivoluzionaria: che il potere non si eredita, si costruisce dal basso.
Catherine Connolly e la rinascita di una Repubblica unita, inclusiva, sociale e plurale
La vittoria di Catherine Connolly ha avuto l’effetto di un terremoto politico.
Sessantasei anni, una vita trascorsa tra tribunali, campagne civiche, il consiglio comunale di Galway e il parlamento di Dublino come indipendente di sinistra, Connolly ha incarnato un’idea antica e insieme nuova di politica: sobria, coerente e collettiva. Il suo linguaggio diretto, privo di enfasi populiste ma intriso di senso morale, ha risvegliato un elettorato stanco dei compromessi e delle mezze verità, soprattutto quello più giovane della Gen Z che l’ha votata in massa.
Connolly ha costruito una campagna capillare, casa per casa, che ha parlato a un’Irlanda reale fatta di salari stagnanti, caro-affitti, sanità sotto pressione e giovani costretti a emigrare.
Ma accanto alla dimensione sociale, ha rilanciato la dimensione repubblicana, unendo nella sua piattaforma tre fili storici: la neutralità attiva dell’Irlanda, la riunificazione dell’isola e la rinascita del gaelico come lingua viva, non come ornamento folklorico.
Nel suo discorso della vittoria svoltosi nel famoso e famigerato Castello di Dublino, in passato sede del potere coloniale inglese nell’isola, ha affermato fieramente, riassumendo il senso ultimo della piattaforma politica che ha rappresentato: “Together we can shape a new republic that values everybody,”. Una nuova repubblica unita, inclusiva, sociale e plurale che ricorda, per molti aspetti, quella repubblica che James Connolly e gli altri rivoluzionari che presero parte alla Easter Rising, l’avvio della Rivoluzione nazionale irlandese, si erano immaginati quando stesero la famosa Proclamazione d’Indipendenza del 1916.
Connolly ha fatto della solidarietà internazionale un pilastro della sua campagna, ponendo la Palestina al centro, denunciando l’allineamento crescente dell’Irlanda con la NATO, e sostenendo fieramente il valore morale e politico della storica neutralità irlandese, da difendere, per Connolly, a tutti i costi. Per lei, la neutralità non è passività, ma scelta attiva di pace: una posizione che, in un’Europa sempre più militarizzata, è suonata come un forte atto di resistenza morale e politica che ha fatto suonare molti campanelli d’allarme nelle stanze dei bottoni di mezzo Occidente.
Ma anche i simboli culturali sono diventati parte di un discorso politico nuovo, inclusivo e identitario. La difesa del gaelico, la rivendicazione della memoria anticoloniale e la riunificazione dell’isola, temi sempre più a cuore alle giovani generazioni irlandesi come dimostra il caso mediatico degli Kneecap, sono stati temi centrali della campagna elettorale di Connolly. Per la generazione Z irlandese, cresciuta tra crisi economiche, inflazione e precarietà, parlare di lingua e sovranità significa parlare di dignità, di emancipazione e di autodeterminazione personale e nazionale. Non questioni identitarie, ma fondamentali simboli di anticolonialismo, internazionalismo ed equità sociale e politica.
Una sinistra unita su una piattaforma sociale
Il successo di Connolly è stato reso possibile da una convergenza inedita di tutta la sinistra unita.
Dai socialdemocratici moderati ai repubblicani di sinistra, fino ai movimenti socialisti radicali, l’arco progressista irlandese si è ritrovato dietro una candidatura comune, riconoscendo in lei un punto di equilibrio tra radicalità e credibilità.
Connolly, in questo senso, ha incarnato l’idea di una repubblica dove la sovranità nazionale e quella popolare coincidono. La sua piattaforma includeva la riduzione della spesa militare, la tassazione progressiva delle grandi imprese tecnologiche, il calmieramento dei prezzi degli affitti, la costruzione di alloggi pubblici, la sanità universale, il salario minimo, la difesa dei più deboli e delle minoranze. Una visione sistemica, plurale, ma ancorata alle necessità concrete della vita reale delle persone comuni. Una visione capace di unire fondamentali temi culturali e civili come i diritti lgbt, la lingua e la causa palestinese, con risposte concrete alle reali problematiche quotidiane delle persone comuni.
In un Paese segnato da decenni di austerità e liberalizzazioni, in un paese deturpato dalla crisi del 2008 e dalla selvaggia gentrificazione delle sue città da parte del nuovo tecnocapitalismo globale e transnazionale, la forza di Connolly è stata la chiarezza: nessuna ambiguità su da che parte stare. Quella del 99%, quella dei cittadini e delle cittadine che formano la stragrande maggioranza della popolazione che rappresenterà e non quell’1% dei soliti grandi interessi politici ed economici che vincono sempre a discapito di tutti gli altri.
In Irlanda, per la prima volta da decenni, la parola “socialismo” non è più un tabù e questo è solo l’inizio.
Zohran Mamdani e la New York del 99%
Dall’altra parte dell’Atlantico, Zohran Mamdani, 34 anni, figlio di un professore ugandese di post-colonial studies e di una famosa regista indiana, economista e attivista per il diritto alla casa, ha scritto una pagina storica nella politica americana. Infatti, con il 50% circa dei voti, ha sconfitto Andrew Cuomo, ex governatore e simbolo del potere democratico tradizionale. Il suo discorso della vittoria, tenuto a Brooklyn davanti a migliaia di sostenitori, è diventato immediatamente virale.
“New York has shown it would be the light in a moment of political darkness,” ha detto. “Here we believe in standing up for those we love, whether you are an immigrant, a member of the trans community, one of the many Black women that Donald Trump has fired from a federal job, a single mom still waiting for the cost of groceries to go down, or anyone else with their back against the wall.”
“New York will remain a city of immigrants, a city built by immigrants, powered by immigrants, and as of tonight, led by an immigrant,” ha aggiunto tra gli applausi. “So hear me President Trump when I say this: to get to any of us, you will have to get through all of us.” [Trad. «New York ha dimostrato che può essere la luce in un momento di oscurità politica», ha detto. «Qui crediamo nel difendere chi amiamo, che tu sia un immigrato, un membro della comunità trans, una delle tante donne nere che Donald Trump ha licenziato da un lavoro federale, una mamma single che aspetta ancora che il costo della spesa diminuisca, o chiunque altro con le spalle al muro.»
«New York rimarrà una città di immigrati, una città costruita dagli immigrati, alimentata dagli immigrati e, da stasera, guidata da un immigrato», ha aggiunto tra gli applausi. «Quindi ascoltami, Presidente Trump, quando dico questo: per arrivare a noi, dovrete passare attraverso tutti noi.»]
Con queste parole, Mamdani — dichiaratamente socialista e musulmano — ha posto la sua vittoria come atto collettivo e politico insieme: un riscatto per chi vive ai margini, per chi lavora senza tutele, per chi è costantemente escluso dai tavoli del potere. E ha lanciato un messaggio diretto al presidente in carica:
“If there is any way to terrify a despot, it is by dismantling the very conditions that allowed him to accumulate power. This is not only how we stop Trump, it’s how we stop the next one. So, Donald Trump, since I know you’re watching, I have four words for you: turn the volume up.” [Trad. “Se c’è un modo per terrorizzare un despota, è smantellare le stesse condizioni che gli hanno permesso di accumulare potere. Questo non è solo il modo in cui fermiamo Trump, è il modo in cui fermiamo il prossimo. Quindi, Donald Trump, visto che so che stai guardando, ho quattro parole per te: alza il volume.”]
Un programma di giustizia e coraggio
La campagna di Mamdani ha saputo parlare alla città reale, quella fatta di migranti, di affittuari, pendolari, studenti e lavoratori dei servizi, con un messaggio semplice: la città deve tornare a essere di chi la vive, non di chi la compra. Le sue proposte includevano tenere i proprietari immobiliari responsabili per le condizioni abitative, calmierare il prezzo degli affitti, rendere gratuiti i trasporti pubblici per tutte e tutti, difendere il piccolo commercio di quartiere distrutto dalla competizione delle grandi catene corporative, difendere le comunità migranti dagli abusi della polizia e della famigerata ICE (la polizia anti-immigrazione americana), porre fine alla cultura della corruzione che ha arricchito la classe miliardaria americana, e rafforzare i diritti dei lavoratori e le protezioni sindacali:
“We will stand alongside unions because we know, just as Donald Trump does, that when working people have ironclad rights, the bosses who seek to extort them become very small indeed.” [Trad. “Sosterremo i sindacati perché sappiamo, proprio come Donald Trump, che quando i lavoratori hanno diritti inviolabili, i capi che cercano di estorcerli diventano davvero molto piccoli.”]
E per farlo propone di aumentare le tasse a quell’1% di ricchi che abitano nel centro di New York nei loro giganteschi appartamenti di lusso e che possiedono economicamente New York a discapito del resto della popolazione comune che quella città la vive davvero, nei suoi quartieri e nelle sue contraddizioni. Il messaggio di Mamdani è tanto semplice quanto rivoluzionario per gli Stati Uniti (e ormai anche per noi europei per i quali le lotte per la dignità sociale di tutti ormai spesso sono un ricordo sbiadito del passato): tassare i ricchi non è una punizione, ma è giustizia redistributiva. Vuol dire prendere un po’ di quel valore, di quella ricchezza prodotta dal 99% e accumulata nelle mani dei soliti noti (come ci ricorda il buon barbone di Treviri), e utilizzarla per rendere migliore la vita di tutti e tutte. Per garantire casa, trasporti e sanità pubblica e uno stato sociale efficiente e a misura di cittadino nel paese del capitalismo, dell’individualismo e delle grandi contraddizioni sociali. Dove se perdi il lavoro sei condannato e se ti ammali muori. Dove se sei diabetico o sei ricco o muori. Dove se non sei figlio di ricchi il tuo futuro è fatto di stenti, delusioni e povertà quando tutti ti dicono che se vuoi puoi.
La vittoria di Mamdani e la leadership è già diventata il simbolo di una nuova generazione socialista americana — plurale, urbana, intersezionale, e radicata nella vita quotidiana, che piano piano è cresciuta a partire dalle manifestazioni di Seattle di fine anni ’90, che si è consolidata durante Occupy Wall Street, si è radicalizzata in Black Lives Matter e nelle manifestazioni contro il genocidio palestinese, si è riconosciuta nelle campagne per le primarie dem di Bernie Sanders del 2016 e del 2020 e nelle vittorie elettorali di Alexandra Ocasio-Cortez e del resto della Squad e che oggi chiede a gran voce quello spazio nell’agone politico americano che gli spetta.
Quando la macchina del fango si rompe
Le reazioni delle grandi testate statunitensi (e occidentali, come ci mostra l’orrido spettacolo delle televisioni e dei giornali italiani) non si sono fatte attendere. Editoriali allarmati parlavano di “populismo di sinistra”, mentre i network più moderati lo descrivevano come un “pericolo per gli investitori”. Addirittura, sono mesi che si parla di un possibile esodo di ricchi da New York verso altri lidi meno “rossi”. Ma la macchina del fango non ha attecchito. Come Connolly, anche Mamdani ha scelto di spostare il terreno del confronto sui temi della propria campagna elettorale: diritti sociali, pluralismo e pacifismo.
Il paragone con Jeremy Corbyn è inevitabile. Dove Corbyn fu intrappolato nelle accuse di antisemitismo per il suo supporto alla causa palestinese e nel bisogno di apparire rispettabile, Mamdani — come Connolly — ha rimandato le accuse al mittente, si è dimostrato forte e fermo sulle sue posizioni e il popolo di New York si è riconosciuto in lui e lo ha sostenuto. È ormai celebre il dibattito elettorale per le primarie dem dove, alla domanda su quale sarebbe stato il loro primo viaggio istituzionale dopo la loro eventuale elezione a sindaco, tutti hanno risposto Israele eccetto Mamdani che ha coraggiosamente affermato che sarebbe stato a New York tra i suoi cittadini. Risposta che gli ha portato il plauso addirittura di Joe Rogan, un personaggio notoriamente tutto a parte che di sinistra.
Questo ci insegna molto. Mamdani, invece, di moderare il linguaggio per rassicurare i poteri forti, lo ha radicalizzato per chiarire da che parte stava. Il risultato è stato sorprendente per i più ma soprattutto rivelatore: in un’epoca di disillusione, in un mondo che sta veramente diventando al contrario (altro che Vannacci), l’autenticità e la radicalità è diventata un valore politico fondamentale da difendere e non da mascherare.
Una nuova grammatica della sinistra
Le campagne di Dublino e New York hanno molto in comune. Entrambe hanno unito orizzontalità e organizzazione, radicamento e visione, empatia e conflitto. Entrambe hanno riscoperto una grammatica politica che sembrava perduta: quella che parla non ai cittadini ma con loro. Nessun marketing, nessuna estetica del leader solitario, ma movimenti collettivi costruiti nel tempo, dentro le comunità che si intende rappresentare, e con una retorica, un linguaggio e una comunicazione al passo con i tempi, che vada incontro alla gente e non la allontani in sofismi inintelligibili e voli pindarici fuori dal tempo.
Connolly e Mamdani hanno dimostrato che diritti civili e giustizia sociale non si escludono, ma si rafforzano a vicenda. Il femminismo di Connolly, l’antirazzismo e l’intersezionalità di Mamdani non sono stati slogan, ma parte di una visione materiale: salario, casa, lavoro, salute, linguaggio, dignità. La loro sinistra non è quella delle università o dei talk show, ma delle cucine, delle scuole, delle strade. Una sinistra che si fa capire perché parla chiaro, che convince perché vive come predica.
Segnali di un’onda lunga
Le vittorie di Connolly e Mamdani non sono isolate. Negli Stati Uniti, si intravede un nuovo ciclo politico. A Minneapolis, l’americano-somalo Omar Fateh — già senatore statale del Minnesota — ha ottenuto il 31% dei voti al primo turno per la carica di sindaco, arrivando secondo e aprendo la strada a un possibile ballottaggio storico per un socialista. In Illinois, l’americana-palestinese Kat Abughazaleh ha annunciato la sua candidatura alla Camera dei Rappresentanti per il 9° distretto, con una campagna elettorale veramente costruita dal basso, dai quartieri e dall’attivismo quotidiano tra i più deboli e disagiati, e con un programma centrato su salario minimo, difesa delle comunità migranti, sanità pubblica, servizi sociali e diritti dei lavoratori.
Si tratta di una generazione politica che non teme di dirsi socialista, che unisce le lotte antirazziste e sindacali, che non vede contraddizione tra giustizia climatica e giustizia economica. Un’onda che non nasce dalle élite, ma da esperienze di mutualismo, organizzazione di quartiere e solidarietà concreta. Infatti, la loro grammatica del ‘99%’ non nasce dal nulla. Dalla stagione di Occupy in poi — di cui l’antropologo David Graeber fu uno degli architetti culturali — pratiche orizzontali, mutualismo e un linguaggio capace di dire noi senza chiedere permesso hanno sedimentato una cultura politica. È quella cultura che oggi riappare in forme governative: assemblee di quartiere, coalizioni di inquilini, sindacati di base. Tutte forme di rappresentanza popolare che sono al centro delle pratiche di questa nuova generazione di socialisti americani.
Oltre il cinismo
Viviamo un tempo di saturazione informativa, di crisi della fiducia e di disaffezione verso la politica. La destra ha imparato a sfruttare il linguaggio dei social, dei meme e del risentimento; la sinistra, spesso, ha reagito cercando di imitarla, perdendo sé stessa. Ma le campagne di Connolly e Mamdani indicano una via diversa: un linguaggio della verità, semplice ma non semplicistico, emotivo ma non demagogico. Una politica che torna a essere desiderabile, non per nostalgia ma per necessità. Le loro vittorie mostrano che l’empatia può essere una forza rivoluzionaria, che la sinistra può parlare alla mente e alla pancia della gente senza essere né demagogica né elitaria ed elitistica, che la solidarietà può diventare contagiosa, e che la coerenza — in un’epoca di opportunismo — è un atto di coraggio che paga.
La politica come possibilità
Catherine Connolly e Zohran Mamdani non sono messia né simboli salvifici. Anzi, sono figli del loro tempo pieni di difetti e problematicità. Ma sono, principalmente due simboli. Due esempi concreti di come si possa ancora vincere restando fedeli ai propri principi, costruendo consenso dal basso, unendo radicalità e competenza, visione e concretezza. Hanno mostrato che il linguaggio del 99% non è solo populismo, solo becera retorica da bar, ma democrazia reale, partecipazione collettiva e difesa del bene comune, come ci dicevano Laclau o David Graeber. E che la politica, quando è coerente e collettiva, può ancora cambiare il mondo.
In un’epoca di cinismo e individualismo, la loro lezione è semplice ma potente: non serve piacere ai potenti, basta rappresentare chi non lo è. E se la loro vittoria è un segnale, allora forse la sinistra, quella vera, non è finita. Sta solo imparando di nuovo a farsi capire.
Filippo Barsi, esecutivo nazionale GC