Genova è “carsica”. L’ho sempre saputo. Pare addormentata, addirittura rassegnata. Poi, d’improvviso, come l’ondata di piena di un fiume, prorompe, deborda, crea e si prende nuovi spazi. Era successo nel ’60 del governo Tambroni, nella preparazione del contro-G8 del 2001. È successo il 30 agosto di quest’anno. Come in tutta Italia, tante e ripetute erano state le manifestazioni di solidarietà con il popolo palestinese. Tutte, purtroppo, caratterizzate da una partecipazione limitata, almeno rispetto alle necessità: diverse centinaia di militanti disposti a scontrarsi con le disposizioni del “decreto in-sicurezza”, pur di provare a scalfire quel muro di silenzio che circondava il genocidio di quel popolo.
Poi, il 30 agosto, risultato dell’impegno del Collettivo Autonomo Lavoratori del Porto di Genova e di Music For Peace, organizzazione molto conosciuta nel capoluogo ligure, per via del suo impegno negli aiuti alle popolazioni colpite da guerre o da crisi umanitarie.
Un esito assolutamente non previsto, almeno nei numeri: una raccolta di cibo non deperibile quindici volte superiore al già ambizioso obbiettivo delle 40 tonnellate, la partecipazione alla Global Sumud Flotilla, il corteo dei 50.000 che ha accompagnato la sua partenza dal porto antico di Genova.
Un vero e proprio, inaspettato, imponente, salto di qualità! Forse anticipato dall’esito della raccolta alimentare. Tanto che anche una parte del sino allora silente centro sinistra ha calcato per tre ore la sopraelevata cittadina. Ma la “gente” è scesa in piazza a prescindere dalla presenza della Sindaca. La gente era quella ben delineata da Zerocalcare, che descrive come persino gli emarginati, il sottoproletariato pasoliniano, sappiano cosa stia succedendo in quel biblico posto. La “gente” era lì per l’indignazione che provava, non perché sollecitata da una qualche sigla. Allora, più che di gente, occorre parlare di “popolo”. Finalmente si è andato oltre agli eroici simpatizzanti di Rifondazione, di Pap e della sinistra radicale.
Troppo presto per dirlo? Forse sì. Già troppe volte ci siamo illusi per fuochi risultati fatui, per degli “sciuppun de futta”, per dirla alla Govi. Allora, occorre dare fiato a quel popolo. Per questo ci si è ritrovati l’11 settembre al circolo dell’Autorità Portuale, per decidere cosa fare “domani”. E si è deciso di indire lo sciopero per il 22 settembre. Sempre che le motovedette sioniste non attacchino prima.
E sarà sciopero. Ai varchi portuali si dice che “non passerà un chiodo”. È cosa buona e giusta. Anche la Camera del lavoro genovese promette di scendere in piazza in caso di attacco. Significa porto chiuso anche dall’interno. Ma non basta: occorre pensare a come coinvolgere i 49.000, quelli che magari non se la sentono di presidiare i varchi. Abbiamo bisogno che si manifesti nuovamente la loro indignazione. Serve dare continuità. Sicuramente “per noi”, per dare fiducia alla nostra richiesta di un mondo diverso, fatto non di economie di guerra ma di solidarietà e giustizia ma, soprattutto, perché solo con i grandi numeri, con i milioni di persone che dimostrano il proprio dissenso contro le politiche genocide israeliane, in Italia e nel mondo, che si può isolare economicamente e culturalmente il sionismo. È solo con embarghi come quello applicato al Sud Africa dell’Apartheid che si potrà obbligare il governo Netanyahu ad interrompere i propri atti criminali.
Nel frattempo, siamo tutti a sospingere la Global Sumud Flotilla. Siamo la Sumud Flotilla.
Ultima ora: abbiamo notizia che Rebora, responsabile di Music For Peace, imbarcato, rientrerà a Genova: ci sono altre 560 tonnellate di viveri da inviare in Palestina. Questa volta via terra.
Ostinati e contrari. Sempre!