Sentenza della Corte di giustizia UE sulla direttiva sul salario minimo: più ombre che luci

C’è grande esultanza tra le forze del centrosinistra e tra diverse sigle sindacali per la sentenza della Corte Europea che ha respinto il ricorso con cui la Danimarca, sostenuta dalla Svezia, si proponeva di annullare integralmente la direttiva europea sul salario minimo.
In realtà, a ben vedere l’intervento della Corte contiene più ombre che luci. È vero che viene respinto l’attacco ad aspetti di principio contenuti nel testo come l’obbligo di garantire che il salario minimo assicuri un tenore di vita dignitoso, la riduzione della povertà lavorativa e una maggiore equità sociale; o come l’obiettivo di promuovere la contrattazione collettiva e ridurre il divario retributivo di genere. E non sottovaluto il valore simbolico di riferimento che questi punti potrebbero rappresentare, ma l’impatto avuto finora sui Paesi europei dimostra che possono restare lettera morta.
Ma è la stessa Corte a precisare che la direttiva non interferisce con le contrattazioni salariali nazionali e interviene puntualmente per rafforzare questo punto di vista.
A conferma di questa impostazione viene infatti  accolto parzialmente, ma sostanzialmente il ricorso del ministero del lavoro danese cassando due dei punti realmente cogenti della norma europea.
Sono state cancellate  la parte in cui si davano ai Paesi nei quali vige il salario minimo legale criteri concreti (come il potere d’acquisto e il costo della vita) su cui basare la definizione dei minimi e la disposizione che vietava di ridurre il salario minimo laddove vengono introdotti sistemi di adeguamento dei salari all’inflazione. Come dire che quello che si dà da una parte si può togliere dall’altra. La dice lunga la motivazione di questi due interventi: i punti annullati rappresentavano un’ingerenza dell’UE nella determinazione dei salari mentre il trattato sul funzionamento dell’Unione esclude espressamente la competenza UE in materia di retribuzioni.

Non a caso la stessa Ces (Confederazione europea dei sindacati) si dice “molto preoccupata” per l’eliminazione della disposizione che impediva modifiche ai salari minimi indicizzati, per la possibilità che possa essere utilizzata per ridurli. Cosa gravissima, specialmente in Italia, dove l’inflazione generata da un aumento smisurato dei profitti, continua ad essere utilizzata per ridurre i salari, capofila un governo che complici gran parte dei sindacati confederali, Cgil esclusa, ha firmato contratti che riducono del 10% il valore reale dei salari dei dipendenti pubblici.

Per quanto riguarda paesi come l’Italia in cui la copertura contrattuale riguarda l’80% o più delle lavoratrici e dei lavoratori non cambia nulla. Si  continua a considerare, a torto, che la contrattazione possa garantire salari minimi adeguati e quindi la sentenza ribadisce  che la direttiva  “non  impone l’obbligo di introdurre un salario minimo legale né di dichiarare i contratti collettivi universalmente applicabili”.
La situazione drammatica dei salari, con milioni di lavoratrici e lavoratori con redditi sotto la soglia di povertà relativa,  in Italia smentisce l’idea che la contrattazione sia di per sé in grado di garantire salari adeguati a una vita dignitosa. Per questo diventa ancora più centrale la nostra lotta per un salario minimo legale aggiornando la nostra proposta all’inflazione. Anche a chi propone un salario minimo orario di nove euro lordi ricordiamo che i nove euro del 2018, anno in cui presentarono la proposta per la prima volta, oggi corrispondono ad almeno 11 euro.