L’eredità di Lidia Menapace

Negli ultimi anni, in occasione delle mobilitazioni contro la guerra in Ucraina e il genocidio del popolo palestinese, divers@ attivist@ hanno espresso il loro disappunto per il fatto che non sia stata riconosciuta la maternità dello slogan che da tempo è il marchio di fabbrica delle manifestazioni pacifiste: “Fuori la guerra dalla storia”. Maternità perché lo slogan è stato coniato da Lidia Menapace (1924-2020), partigiana e poi politica, lungo una traiettoria che, dalle fila della DC, la condurrà, in nome dell’antifascismo, a militare in Rifondazione comunista, di cui sarà senatrice dal 2006 al 2009. Paradossalmente, però, l’oblio del nome della sua autrice può essere letto come la consacrazione dello slogan, come capita a quelle frasi o canzoni che tutt@ sanno e che perciò sembrano senza tempo.

Riconosciuto questo debito, del costante e intenso impegno di Menapace vanno valorizzati oggi in particolare tre aspetti: l’approccio al marxismo; la visione del femminismo; il contributo al pacifismo.

La convinzione che la conoscenza debba essere fondata sulla relazione e l’esperimento, senza pretese di eternità e organicità, la porta ad abbracciare, nel 1968, “un marxismo galileiano, […] fondato su un’analisi scientifica della realtà storica, sociale economica e politica, dunque dl impostazione induttiva, creativa, sperimentale; e nello stesso tempo non ‘neutrale’”. Pochi anni prima di morire ribadisce la sua fedeltà alla “teoria d’occasione”, ossia non dedotta da principi generali, ma sviluppata a partire da “un fatto un detto un gesto un evento capitato e noto, e da lì parto per fare il giro dell’orizzonte”.

L’eredità di Menapace per il femminismo è molteplice. Molto attuale è la sua polemica verso le “padre”, le “maschie”, ossia le donne cooptate negli organi dirigenti dei partiti e nei CdA delle aziende, spacciate per una conquista femminista. Giorgia Meloni è emblematica di come l’ascesa alle più alte cariche non rappresenti affatto una vittoria (checché ne dicano anche donne “progressiste”), perché il prezzo da pagare è l’appiattimento sulla cultura patriarcale, mentre le molteplici forme di oppressione che colpiscono le donne rimangono intatte. A tal proposito, preziosa è anche la posizione di Menapace sul linguaggio inclusivo, oggi più che mai sotto attacco da parte delle destre come parte dell’”ideologia woke”, ma anche mal digerito da compagni che lo considerano una deriva identitaria e oggi in una certa misura giustificano questa controffensiva delle destre, non comprendendo che, come scriveva Menapace, “il nome è potere, esistenza, possibilità di diventare memorabili, degne di memoria, degne di entrare nella storia in quanto donne”. Peraltro, l’idea di differenza che Menapace ci ha trasmesso si basa non su una visione essenzialistica della donna come “ontologicamente” incline alla cura, alla nonviolenza, all’antimilitarismo, bensì su un dato biologico – l’incontrovertibile specificità del corpo femminile – e insieme storico: la duplice oppressione, di classe e di genere, di cui le donne sono vittime, che diventa triplice per le donne razzializzate. Individuando nella subordinazione delle donne una modalità di funzionamento costitutiva del sistema capitalista, Menapace ci consegna una prospettiva utile a correggere una teoria dell’intersezionalità declinata in termini puramente identitari. Lo stesso vale per il pacifismo, da lei teorizzato e praticato in modo tutt’altro che astratto o culturalista. Intanto, il suo marxismo galileiano coglie “l’inestricabile connessione tra sfruttamento economico delle persone e delle risorse e guerra”. Della NATO scrive, dopo il 1991: “non è più in alcun modo un patto difensivo, ma disegna anche guerre di aggressione e preventive” e proprio per questo è convinta che il riarmo sia incompatibile con la democrazia.

A chi scredita il movimento pacifista perché ingenuo o dogmatico o, peggio, composto di utili idiot@, dobbiamo rispondere con la proposta molto concreta di Menapace: “la pace è governo nonviolento dei conflitti e dunque chiede analisi dei conflitti e delle loro cause, affrontamento, procedure di raffreddamento, interposizione e interventi nonviolenti e non armati”. E a chi, anche a sinistra, invoca il ritorno di un’Europa guerriera, ricordiamo, ancora con le sue parole, che la difesa della patria “non può essere unilaterale e irragionevole; occorre infatti che un paese, per essere difeso dai suoi abitanti, sia a essi appetibile e caro, che si senta con forza il legame con esso, il senso della sua storia, cultura, aspetto, lingua ecc. In primo luogo, dunque, difesa della patria è il suo sistema democratico”.

Al nazionalismo senza futuro – se non quello apocalittico – delle destre è urgente contrapporre, raccogliendo il miglior lascito di Menapace, un’idea di comunità sostanziata dalla democrazia politica, sociale ed economica e inserita in un’Europa neutrale, capace di porsi come “ago della bilancia delle cose del mondo e non un soggetto poco o nulla autonomo che accresce i fattori di crisi e di involuzione giuridica e politica del pianeta”.